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"Tavola Imbandita" - La tradizione della carne in Abruzzo, secondo l'artista Matteo Fato

 

 

 

 

 

 

 

 

Tavola imbandita è un lavoro di Matteo Fato concepito per la mostra Vita activa. Figure del lavoro nell’arte contemporanea, curata da Simone Ciglia nel 2014. In occasione dell’esposizione – promossa dalla Fondazione Aria – sono state attivate due residenze per artisti all’interno di aziende in Abruzzo. La pastorizia è indissolubilmente legata all’immaginario che circonda la regione, immortalato anche dall’arte. Sulla scorta di questa tradizione, la lavorazione delle carni rappresenta tuttora una delle attività praticate, e ha nell’azienda Jubatti di Pretoro (CH) una delle realtà maggiori del territorio. Questo è il luogo nel quale Matteo Fato (Pescara, 1979. Vive e lavora a Pescara) ha svolto la propria residenza.

La preferenza dell’artista è caduta su questo settore per rispondere a un’antica ossessione nei confronti del tema della carne. Questo soggetto attraversa l’intera storia della pittura: sia sufficiente citare episodi come le nature morte olandesi, il bue squartato di Rembrandt (ripreso da Chaïm Soutine nel XX secolo), Francis Bacon – tutti punti di riferimento nella cultura figurativa di Fato. Se nel corso della sua carriera l’artista ha spaziato liberamente fra tutti i media, il suo campo d’elezione è rappresentato dalla pittura. A essa è legato il suo esordio, guidato da una ricerca sul segno, cui è seguito un interesse per la questione del linguaggio.

Fato ha impiegato l’occasione offerta dalla residenza per utilizzare la carne (insieme ad alcuni oggetti a essa legati) come materiale per una composizione su un tavolo, una natura morta. Quest’ultima è stata quindi fotografata e utilizzata come guida per la pittura. Sia l’immagine di partenza che la sua traduzione pittorica sono quindi esposte insieme, a illustrare il processo artistico. Entrambe sono situate in un’installazione di matrice architettonica, che ingaggia una relazione con lo spazio espositivo. Il quadro alloggia all’interno della cassa solitamente utilizzata per il trasporto, mentre il coperchio di quest’ultima funge da parete che sostiene una piccola mensola per la fotografia. Il contenitore poggia a sua volta uno zoccolo che racchiude una serie di cinque monocromi: base simbolica della pittura, la loro origine formale è da rintracciare nelle bande laterali delle pellicole fotografiche Kodachrome, cui si aggiunge il richiamo ben più antico alle predelle delle pale d’altare. I cinque colori rappresentano la gamma impiegata dall’autore come fondi per le proprie tele. Se originariamente la Kodachrome svolgeva la funzione di riscontro con i colori reali, qui rappresenta metaforicamente una soglia d’ingresso alla pittura, come – dice l’artista – «una teoria dei colori inesistente» che ne consente di leggere la realtà. La contestualizzazione di tutti questi elementi riconduce il lavoro a una meditazione sulla pittura. Lo spazio infatti viene «preparato come una sorta di tavolo di una natura morta architettonica, come se nello spazio avvenisse un secondo tentativo di pittura».  

L’opera prosegue una riflessione che l’artista sta compiendo da due anni a questa parte sul tema della natura morta. Si tratta, com’è noto, di uno dei generi più longevi all’interno della storia dell’arte. Codificato nel XVI secolo, il suo arco di sviluppo – ampio tanto dal punto di vista cronologico quanto geografico – ne rende molteplici le valenze. Fato ama riprendere a questo proposito la definizione vasariana di «cose naturali». Alla carne in particolare era dedicata una sottocategoria all’interno del genere, quella della cosiddetta “tavola imbandita”, diffusa soprattutto nei Paesi Bassi (da cui l’autore ha tratto anche il titolo dell’opera). A questo soggetto erano legate connotazioni simboliche, generalmente allusive della caducità della vita. Nel corso del XX secolo tuttavia il carattere della natura morta cambia, e l’opera di Fato s’inscrive appieno in questo nuovo orizzonte di significato: il simbolismo infatti viene meno in favore di una ricerca di puri valori pittorici. Privo dell’assillo del soggetto e del contenuto, il pittore è libero di dedicarsi alla sua attività. Come affermano gli studiosi Samuel Vitali e Uliana Zanetti «il genere, per la sua stessa natura, è direttamente subordinato al controllo dell’artista come nessun altro tema, dalla scelta degli oggetti alla loro disposizione nello spazio, ed è quindi intimamente connesso col concetto della libertà artistica»[1]. Già alla fine dell’Ottocento Émile Zola definisce la natura morta come «un prétexte à peindre» (un pretesto per dipingere). Ne Il ventre di Parigi (1873), lo scrittore francese racconta la vicenda del pittore Claude Lantier: 

Era solito aggirarsi tutta la notte in quegli spazi, fantasticando nature morte gigantesche, quadri mai veduti. Anzi, ne aveva persino cominciato uno; aveva fatto posare l’amico Marjolin e quella sguaiatella della Cadine; ma ci voleva altro! Era troppa la bellezza di quegli accidenti di ortaggi! E la frutta! E i pesci, e la carne! … era chiaro che a Claude, in quel momento, non passava nemmeno per il capo che tutte quelle bellezze fossero da mangiare. Lui non ne amava che il colore[2].

Intorno agli stessi anni, Manet parla della natura morta come «pierre de touche» (pietra di paragone) del pittore. A questo clima storico sembra rifarsi, seppure forse inconsciamente, anche Fato, che nel suo quadro adotta una tecnica simile a quella couillarde del primo Cézanne: più che dipingere, egli sembra quasi scolpire gli oggetti con colpi di pennello larghi e materici. 

Tavola imbandita propone anche una più ampia riflessione sullo statuto dell’immagine nella contemporaneità. Dal punto di vista semiotico gli oggetti che compongono la natura morta sono – come afferma il linguista Jurij Lotman – «segni della mancanza di segno». Su questa traccia, Fato ritiene che l’avvento del digitale abbia privato l’immagine della sua dimensione oggettiva e oggettuale, provocandone una smaterializzazione. Per tale ragione egli decide di impiegare la fotografia analogica, nel tentativo di restituire questo valore perduto e invertire il passaggio dell’oggetto a immagine.

Il progetto originario di Fato si fondava sull’intenzione di dipingere dal vero, sulla scorta del suo immaginario artistico (popolato dai già citati Rembrandt, Soutine, Bacon). Il confronto con la realtà industriale e le problematiche del contemporaneo hanno tuttavia modificato questo proposito. Dalla metodologia di lavorazione del prodotto è derivata la scelta di assumere come soggetto non un pezzo di carne preesistente (come il quarto di bue), ma piuttosto di crearne uno nuovo derivante dalla composizione di vari frammenti: dalla produzione industriale, dominio della serialità, è derivato in tal modo un oggetto unico. Alla difficoltà del primo impatto di aderenza al vero l’autore ha risposto con la volontà dichiarata di creare «un oggetto che diventasse qualcos’altro». Attraverso la pittura infatti «l’oggetto diventa parte di una dimensione altra, spogliandosi di problemi etici ed estetici». L’esperienza della residenza si è rivelata importante per Fato in quanto gli ha consentito di realizzare qualcosa a lungo ricercato, e a liberarlo dalla mitologia e dalla conseguente schiavitù delle immagini degli artisti ammirati: assecondando l’idea di Vincenzo Agnetti che «La cultura è l’apprendimento del dimenticare».

Nota a cura di Simone Ciglia

Matteo Fato (Tavola Imbandita / Laid table), 2014
- olio su lino / oil on linen, 207,5 x 142,5 cm, cassa da trasporto in multistrato / case for transport in plywood, fotografia analogica / analog photo (120mm), stampa su carta 100% cotone / print on 100% cotton paper, 30 x 30 cm, cornice e mensola in multistrato / frame and shelf in plywood (copia unica / single copy);
- n° 5 monocromi, preparazione a pigmento / monochromes pigment preparation
- 50 x 40 cm ognuno / each, cassa in multistrato e MDF / case in plywood and medium density, dimensioni variabili  / variable dimensions, veduta dell’installazione / installation view,
- Vita Activa - Figure del lavoro nell’arte contemporanea curated by / a cura di  Simone Ciglia, Palazzetto Albanese, Pescara, Italy, 12 / 07 - 12 / 09 / 2014
collezione privata / private collection


[1] Samuel Vitali, Uliana Zanetti, Rinascite e trasformazioni della natura morta nella contemporaneità. Un itinerario, in La natura della natura morta. Da Manet ai nostri giorni, catalogo della mostra a cura di Peter Weiermair, (Bologna, Galleria Comunale, 2001-2002), Electa, Milano 2001, p. 27.

[2] Emile Zola, Le ventre di Paris, Paris, 1873 (trad. it. Il ventre di Parigi, Milano, 1975, p. 25). 

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